Stampa libera, sì d’accordo: ma andiamoci piano. No, nessuna censura… Le parole in libertà in fondo sono l’essenza della nostra democrazia. Nascondono però qualche insidia in epoca moderna. “Adelante Pedro…”, sempre con giudizio. Lo ricordate Umberto Eco? “I social network hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli”. Come dargli torto…
Dunque, fuori da ogni ipocrisia e senza peccare di falso moralismo, diciamo pure come il silenzio, questo sconosciuto, stia diventando merce sempre più rara. Si digita tanto e a volontà, spesso anche sgrammaticalmente (sic…). Poi però scopriamo che l’Italia perde cinque posizioni nella classifica sulla libertà di stampa secondo Reporters sans Frontières, e allora ci chiediamo: ma siamo davvero messi così male? Scendiamo dal 41mo al 46mo posto nella speciale classifica. Sotto Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna per citare le nostre consorelle europee, ma dietro anche Slovenia, Sudafrica e Tonga, per dire. Nella stessa fascia degli Stati Uniti però. Inarrivabili per noi Norvegia, Svezia e Finlandia, ma anche Portogallo (Portogallo?), Australia e Canada: l’Eldorado del pensiero veramente libero. Spontaneo a questo punto chiedersi, fra censure sui TG pubblici e querele per diffamazione inflitte dai governanti a piene mani, se l’arretramento non dipenda dai «bavagli del governo Meloni» che l’opposizione di centrosinistra non perde occasione di denunciare. Facciamo però un passo indietro: nel 2022 l’Italia era soltanto 58esima, un anno fa eravamo risaliti di ben diciassette posizioni. Ora un altro balzo indietro.
Dunque colpa dei governi? Non c’è dubbio, anche se la politica è solo una delle componenti del nostro sistema democratico, probabilmente l’elemento più preponderante. Però, statisticamente parlando, stavamo peggio quando il centrodestra non era ancora al governo. E forse chi c’era prima (Draghi? Conte?) non scherzava con la libertà di espressione stando allo stesso misuratore. Non ce n’eravamo accorti, mentre adesso quelli che ci sono oggi fanno decisamente più caos come direbbe il filosofo Luciano Canfora finito a processo per aver dato della «nazista» a Meloni.
E comunque che nel nostro paese si attraversi una crisi del pensiero, delle idee e dei contenuti non è scoperta di oggi. Siamo adesso però di fronte ad alcuni casi limite che obiettivamente inquietano: vietato bannare la parola “fascismo”, ad esempio. Fa discutere la decisione del condominio romano al Flaminio, dove viveva Giacomo Matteotti “ucciso dai sicari di Mussolini”, c’è scritto sulla nuova lapide che il Municipio vuol apporre in occasione dei cento anni dalla morte (10 giugno). «Niente da fare – dicono i condòmini – quella frase è volgare».
Libertà di espressione e di scioperare (o anche di non farlo), facoltà che coincidono. In genere si sciopera per un diritto e quel diritto riguarda tutti. O quasi. Come suggerisce l’ultima astensione dal lavoro in Rai, proclamata dall’Usigrai il maggior sindacato dei giornalisti. Notizie meno preconfezionate (ovvero a uso promozionale del governo), nuove assunzioni senza l’abominio della partita Iva: ad occhio, vantaggi a beneficio della libertà di informazione e della dignità del giornalista. Temi stringenti, che riguarderebbero l’intera categoria. Ma astensione di fatto boicottata da Tg1 e Tg2 andati quasi regolarmente in onda, pur con le unità ridotte al minimo. Di fatto, due fazioni che adesso si fronteggiano in redazione: non sarà mica che quelli che hanno lavorato fiancheggiano il governo?
Poi ci sono casi limite. Fa tenerezza lo sforzo della Tgr Puglia, unico tg con quello del Molise ad andare in onda: nella foga di confezionare il servizio sul Bari calcio, è saltata la notizia dell’aggressione al direttore sportivo, Polito. Un caso estremo di doppia censura, forse involontaria (la seconda). Ma censurare i colleghi che scioperano sui diritti di tutti, non è mai stato un esercizio di lealtà.