Così il caporalato diventa una guerra di civiltà

«Quando i pelati non costeranno più 70 centesimi, forse avremo sconfitto il caporalato». Lo dice Oscar Farinetti, emblema del Made in Italy e di un’idea di mercato alimentare grandi firme forse un po’ troppo spinta con la sua “Eataly”, costretta poi a chiudere sedi strategiche al Sud (Bari). Ma senza puntare al massimo, oggi basterebbe alzare un po’ il prezzo di quei pelati per mettere d’accordo produzione e consumo: per Farinetti sarebbe sostenibile un prezzo a 1,20 euro per una confezione di 400 grammi. 

Perchè il cibo non costa troppo, se lo guardiamo dai campi di raccolta. Ma finisce per costare troppo, in termini di sacrificio aziendale e di lavoro retribuito, per farlo arrivare alla Grande distribuzione organizzata. La grande menzogna è nella concorrenza folle e sleale innescata dalle grandi piattaforme che schiacciano i prezzi sullo scaffale a discapito di chi c’è dietro, lavoratori e fornitori.

E’ questo il retroterra del caporalato, piaga sociale dura a morire, nell’agro Pontino – dove ha perso la vita il bracciante 31enne indiano Satnam Singh – come in provincia di Foggia dove c’è forse il concentramento più popoloso d’Europa di schiavi delle campagne. 

Un grave problema culturale, il caporalato, non c’è solo una matrice economica a giustificare condizioni di vita scellerate e paghe da fame imposte dai «padroni». Negare al lavoratore che si è appena amputato un braccio il diritto di curarsi, farlo morire dissanguato secondo l’orrenda ricostruzione della tragedia di Latina, è una barbarie oltre ogni limite. Un punto di non ritorno che, se non adeguatamente sanzionato, come invocato con fermezza dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rischia di affondare quel briciolo di umanità e di etica del lavoro (ammesso che ve ne sia ancora una) nei confronti dei migranti. 

Con la scusa che il mercato si regolamenta da solo, è venuta meno la disciplina delle norme che avrebbero dovuto inasprire la lotta agli abusi. La legge 199 “Anticaporalato” non fa più paura nemmeno di fronte allo spauracchio dell’arresto del datore inadempiente. Promulgata nel 2016 dopo la morte per sfinimento della bracciante Paola Clemente nei campi di Puglia, la legge 199 oggi non impedisce alle aziende di ricorrere al caporalato per procurarsi manodopera. Ingaggiare operai a basso reddito è fin troppo facile e scontato in campagna, per quante braccia  disponibili si trovino nei ghetti abusivi.

Per aggirare la legge, i lavoratori sono tutti assunti con “regolare contratto”, ma a paghe irrisorie: Singh prendeva 3,30 euro l’ora per mettere in busta le zucche dell’agro-pontino, nel Foggiano i datori pagano 6 euro a cassone, ovvero tre quintali di pomodori. La proposta di portare la paga minima a 9 euro l’ora, peraltro già adottata da alcune amministrazioni pubbliche (ma non in agricoltura), potrebbe far saltare delicatissimi equilibri tra domanda o offerta con la Gdo. E non a caso molti datori sono contrari. «Il salario minimo metterebbe il punto», osserva Farinetti. Ciò non toglie che la battaglia politica condotta in particolar modo dal centrosinistra (Pd, +Europa, 5 stelle) sia stata finora troppo esitante. E per i lavoratori diventa sempre più dura sbarcare il lunario. 

Braccianti e migranti in particolare, due volte beffati: c’era una volta un tribuno, il convincente Aboubakar Sohumahoro («se ci ritiriamo noi dalle campagne, come li raccogliete più i vostri prodotti?»), che fu eletto deputato per portare in Parlamento le ragioni di una lotta per la dignità dei lavoratori migranti. Ma è finita prima di cominciare, con il rinvio a giudizio di moglie e suocera del parlamentare, accusate di sperperare i soldi destinati alle coop dei migranti.  Una tragedia tramutata in farsa. 

 

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