L’Europa si è sgonfiata, siamo tutti più deboli

L’Europa gigante dai piedi d’argilla, l’Europa vittima dei suoi stessi dogmi. Ci voleva un gigante (vero) come Mario Draghi per mettere finalmente a nudo quello che appare oggi come un re travicello. Non si tratta più di pensarla da euroscettici: pro o contro i regolamenti, come sta avvenendo ad esempio con lo stucchevole balletto (italiano) sulle concessioni balneari. E’ in discussione l’intero impianto di governance politica ed economica dei ventotto stati membri e i conflitti nei rapporti con le altre macroaree del pianeta. 

L’unione avrebbe bisogno innanzitutto di fare mea culpa. Draghi punta il dito sulla vecchia impostazione rigorista: l’Ue non può reggersi solo sul vincolo di bilancio e sulle regole della concorrenza, pur potendo annoverare ben altri meriti (la moneta unica per noi italiani è stato il salvagente delle nostre finanze). 

A giudicare dalla spregiudicatezza con cui si muovono sul mercato gli altri competitor internazionali (Usa, Cina, India, Brasile, Vietnam) siamo rimasti gli unici a fare la morale al mondo. Finendo per pagare un prezzo salatissimo alla marginalità d’impresa che scontano soprattutto i paesi un tempo più competitivi come la Germania, la locomotiva del sistema europeo ai tempi della Merkel, paese oggi ridotto a un Pil da “o,” e dall’andamento claudicante persino peggio dell’Italia. 

Ci siamo impoveriti senza esserne del tutto consapevoli, il Vecchio continente non è più al centro della scena, o forse si è sempre accreditato di un ruolo oggi smentito dai numeri e dalle indecisioni politiche. 

Non si conosce nel dettaglio il rapporto sulla competitività europea di 400 pagine che l’ex premier italiano e capo della Bce, illustrerà lunedì 9 settembre in Commissione Ue. Ma i 5 capitoli evidenziati da Draghi (produttività, riduzione delle dipendenze, transizione verde, inclusione sociale, raccomandazioni specifiche per i i dieci settori più importanti dell’economia europea)   partono dal presupposto che l’Unione abbia bisogno di investire sull’innovazione, di affrancarsi dalle vecchie logiche, di puntare sulla maggiore competitività. 

Draghi invita inoltre a demolire falsi miti come il costo del lavoro più alto che impedirebbe all’Ue di reggere il passo dei concorrenti. Ha ricordato a tal proposito ciò che accade nel settore hi-tech: sono americani e cinesi a dare la linea, impongono i loro prodotti e fanno affari persino sulle tasse da versare agli Stati che ospitano le “big tech” senza che l’Europa sia stata in grado di favorire in questi anni una reazione forte, tecnologica e politica, più preoccupata di regolamentare il sistema al suo interno e incurante delle incursioni esterne. 

Il nervo scoperto della impalpabilità europea si continua a riscontrare anche sulla difesa dell’Ucraina contro l’avanzata russa, una linea che autorizza lo stesso governo di Kiev a non tener conto delle raccomandazioni in arrivo da Bruxelles come dimostra la vicenda del siluramento, qualche giorno fa, del capo dell’Energia ucraino nonostante il parere contrario dell’ambasciatrice Ue, del direttore della Banca centrale europea e della direttrice per l’Europa della Banca Mondiale, ovvero i tre organismi internazionali che sostengono finanziariamente lo sforzo bellico dei paesi al fianco del governo di Zelenski.

Non è questa l’Europa che abbiamo sognato, non è su questo crinale che si può costruire un’alleanza tra i popoli secondo il disegno dei padri fondatori. La sterzata suggerita da Mario Draghi è forse oggi la più autorevole possibile: non ci sono in circolazioni personalità più qualificate in grado di suggerire ai governi le cose da fare. Non è forse l’ultima chiamata, ma poco ci manca: serve un’Europa fuori dai tatticismi e dalle divisioni per superare il gap dell’incertezza. Il pericolo oggi più insidioso.

L’ex premier italiano Mario Draghi

 

 

 

Tag: Nessun tag

I commenti sono chiusi.