Quanto è caduta in basso l’America? Teniamo, per prudenza, ancora il punto interrogativo sul nostro stupore e incrociamo le dita per quel che accadrà tra meno di una settimana. Il voto per le presidenziali Trump vs Harris (5 novembre) non suggerisce la sensazione di una nuova stagione in arrivo per la più grande democrazia occidentale, ma semmai pericolosi indizi di instabilità politica dai riverberi mondiali e un’escalation di violenze interne, peraltro già promesse dai sostenitori di entrambi gli schieramenti.
La chiamano ancora campagna elettorale quella suburra di volgarità, linguaggio da trivio e colpi di pistola che hanno provato a togliere di mezzo il candidato repubblicano che lì proprio non doveva esserci. La più grande democrazia del mondo attraversa il suo inverno più cupo se un personaggio ingombrante come Trump è ancora eleggibile e gode i favori di un elettore su due (testa a testa, dicono i sondaggi). Ma vale lo stesso per i democratici che non hanno saputo contrastarlo a dovere, se fino a pochi mesi prima dell’election-day pensavano ancora di poter scongiurare il ritorno del ciclone Donald con l’ottuagenario presidente uscente Joe Biden.
L’assalto a Capitol Hill (4 gennaio 2021) da parte dei sostenitori trumpiani, doveva essere il punto di non ritorno della degenerazione del voto popolare. Ha invece ispirato in Brasile la rivolta, con medesime modalità, al congresso da parte dei “tifosi” di Bolsonaro contro la mancata rielezione (gennaio 2023) del presidente uscente. E sembra quasi che questa piega possa instillare negli oppositori di tutto il mondo quel senso di coraggio perduto, in oltre cinquant’anni di stabilità in Occidente, in grado di ristabilire un “ordine” se le cose non si riescono a raddrizzare con il voto popolare. Persino la Francia teme ora una deriva anticostituzionale davanti all’avanzata della destra lepenista e nel remoto Bangladesh la premier in carica ha dovuto riparare in India per sfuggire alla rabbia degli oppositori.
Siamo sotto lo schiaffo del mito americano, che si tratti di Coca Cola o di McDonald’s. Ma siamo anche arrivati al punto di temere per le nostre democrazie se Kamala Harris non dovesse farcela a disarcionare il bisonte dal ciuffo sulla fronte?
Le domande sarebbero tuttavia anche altre, forse meglio prima pensare a centrare il primo obiettivo. Tuttavia un minuto dopo l’elezione di Harris sarebbe inevitabile domandarsi sulla forza del suo mandato e sulla credibilità politica di una vicepresidente uscente, apertamente sconfessata dal suo partito che l’ha designata al posto di Biden come farebbe un preside per la nomina di una supplente in classe, senza un mandato chiaro della base e senza aver superato le primarie. Errore imperdonabile quello dei Democratici.
Le presidenziali americane un solco lo hanno comunque già aperto nelle nostre democrazie, a cominciare dal lessico utilizzato in questa campagna elettorale. Che poi il linguaggio da cantina finisce per diventare il riverbero più immediato quando ascoltiamo il telegiornale o leggiamo i giornali. Perciò quando il tycoon definisce “stupida” la sua sfidante, dopo averla già chiamata “gattara senza figli” e con lei la sua sostenitrice Taylor Swift amante dei felini, un tempo avremmo pensato a un segnale di debolezza del candidato che non riesce a opporre argomenti più “politici”. Oggi invece l’insulto riproduce sulla popolazione l’effetto del “così fan tutti”, anzi del “se lo fanno loro…” ed è uno sdoganamento palese di ciò che vorremmo dire e non ci sogniamo di farlo nemmeno contro il nostro nemico.
Non che il dibattito politico italiano sia per certi versi migliore, ma per fortuna non siamo ancora al punto che da destra a sinistra e viceversa ci si possa dare dello stupido. Non ancora almeno…