L’Autonomia differenziata, ovvero toglietevi di mezzo che non ci servite. E’ il modo spiccio del ministro leghista Calderoli per disfarsi delle regioni spendaccione del Sud. Il ventre molle del paese che «succhia solo soldi allo Stato». Poi è arrivata la Corte Costituzionale che l’ha (in parte) stoppato attraverso i sette quesiti della legge da rivedere. Tra questi c’è il fondamentale capitolo sui Lep, i livelli essenziali di prestazioni: non può essere il governo a deciderli (quanto prevede la legge), vanno stabiliti dal Parlamento (modifica la Consulta). Con una piccola obiezione, però. Sul piano giuridico non fa una piega: solo l’assemblea è sovrana, non può dunque esserlo solo una parte di quell’assemblea. Ma la modifica, applicata alla balcanizzazione del parlamento attuale, rischia di risultare inefficace se a decidere sarà un’assemblea svuotata delle sue funzioni, totalmente bypassato dal governo su tutte le questioni più importanti. La stessa legge sull’Autonomia differenziata (come del resto il premierato voluto dalla premier Meloni) è passato con il voto granitico e compatto della maggioranza. Succederà lo stesso anche quando bisognerà definire i Lep?
Ci ha già pensato il ministro leghista degli Affari regionali a inaugurare una nuova stagione di muro contro muro, dopo l’intervento della Consulta: «Faremo le correzioni – ha detto Calderoli – purché la sinistra la smetta di rompere». Se i presupposti sono questi, difficile che un dialogo fra maggioranza e opposizione sui correttivi da apportare possa decollare.
Lo stop della Consulta ha però dato la sveglia sia a Destra che a Sinistra. E’ sul piano politico, ovvero sulle mosse tattiche dei partiti, che si gioca adesso il futuro di questa legge che molti osservatori la vedono già parcheggiata sul binario morto. Le sette obiezioni della Consulta, ad esempio, potrebbero dar fiato alle perplessità di Forza Italia, che conta molti elettori al Sud e che ora potrebbe trovare giovamento nella sua azione dilatoria. Analogo ragionamento per Fratelli d’Italia, ma qui c’è un problema: se Meloni vuole che passi il premierato (con i necessari voti leghisti), deve fare in modo che arrivi a compimento la legge sull’Autonomia riveduta e corretta.
Anche le opposizioni si sono accorte, dopo l’intervento della Corte, che le 500mila firme raccolte per il referendum contro l’incostituzionalità della legge, agitate come uno scalpo, possono rivelarsi aria fritta ora che l’Alta Corte considera legittima e dunque costituzionale la legge stessa, sia pure con le dovute correzioni.
E’ stata la mossa delle regioni a rimettere ordine nella confusione politico-elettorale che si agita dietro lo spauracchio dell’Autonomia differenziata. Prontamente sfruttato dai governatori che inneggiano senza indugio alla «vittoria del Sud». Vittoria che in verità non potrà mai esserci a difesa dello status quo, dopo l’approvazione nel 2001 del Titolo V della Costituzione che all’articolo 5 riconosce sin dai padri costituenti la presenza delle le autonomie locali nel corpo dello Stato e che da ventitré anni, in virtù della legge costituzionale, ne prevede anche «l’ampio decentramento amministrativo» su istruzione, sanità, imposizione fiscale e quant’altro.
Non sono in discussione i principi fondamentali, racchiusi nei primi dodici articoli della Carta costituzionale: la Repubblica (e la Chiesa) unica e indivisibile, la sovranità appartiene al popolo, pari dignità sociale dei cittadini, il diritto al lavoro. Norme sacrosante ma, a parte qualcuna, regolarmente calpestate oggigiorno. Come a dire che se si volesse approvare l’Autonomia leghista, il varco verso una deregulation totale sarebbe aperto. A scanso di sorprese, meglio perciò lasciare le cose come stanno: la politica parolaia e inconcludente, una volta tanto, avrebbe forse la gratitudine dei cittadini.