Quanto vale a Foggia l’economia criminale? E quanto sono infiltrati gli affari delle persone perbene, degli uomini e delle donne che coltivano il dubbio di un coinvolgimento laterale? Nel secondo saggio del magistrato foggiano Antonio Laronga, la «quarta mafia» così minuziosamente descritta nel volume di esordio viene rappresentata come un mostro camaleontico, versatile e adattabile agli usi e costumi della società civile. Una mafia che s’insinua nella pubblica amministrazione, che fa affari con l’imprenditoria più riconosciuta e riconoscibile e dunque al di sopra di ogni sospetto. Se nel primo volume “Quarta mafia” del 2021 il magistrato, procuratore aggiunto a Foggia, si sofferma sui caratteri primordiali e brutali di una criminalità sommariamente declassata e sottovalutata da inquirenti e forze dell’ordine per un colpevole ritardo investigativo lungo quarant’anni, nel secondo volume venuto alle stampe ad ottobre 2024 (“L’ascesa della quarta mafia. Espansione e metamorfosi della criminalità organizzata foggiana”) Laronga si affida ancora alle carte processuali per ricostruire il sottobosco di connivenze, complicità e misfatti che segnano il cambio di passo della “Società” foggiana, come si chiamava un tempo la mafia del racket delle estorsioni che faceva affari con le bombe ai danni di quanti non pagavano.
In questa intervista concessa a massimoilblog.it, Laronga definisce gli elementi dell’upgrade criminale compiuto dalla quarta mafia foggiana e il difficile contesto in cui oggi si combatte una lotta in cui finalmente lo Stato ha deciso di indossare guantoni più robusti e che poggia sulla scorta di qualche successo già ottenuto, ma in un contesto socio-economico molto diverso e vulnerabile rispetto agli anni in cui la criminalità si subiva quasi inconsapevolmente. Perchè oggi la popolazione, sia pure più conscia di questi fenomeni, non ha ancora concluso di dover fare i conti con la sopraffazione di una criminalità molto più carsica e minacciosa che rischia di inquinare tutti i settori del cosiddetto vivere civile.
Procuratore Laronga, la ricostruzione della vicenda criminale della provincia di Foggia, non è soltanto cronaca nera. Investe una molteplicità di fattori, coinvolge il tessuto economico e sociale dei territori, sarebbe un errore circoscrivere tali fenomeni solo a una narrazione per addetti ai lavori.
«No, infatti. Mi auguro che questo libro venga letto soprattutto dai giovani perchè descrive un quadro davvero importante che prescinde dal caso specifico della città di Foggia, fa capire il disastro che deriva dal tragico incontro che avviene tra il mondo dell’imprenditoria e quello delle mafie. Per la nostra vita democratica, il futuro dei nostri giovani: quando s’incontrano questi due mondi, e purtroppo s’incontrano sempre di più, ne deriva un disastro per la nostra società civile. E questo disastro ho cercato di ricostruirlo con dati alla mano ed esempi concreti, in base gli atti processuali e amministrativi dei vari processi che sono stati celebrati».
Una sorta di accesso agli atti per il cittadino che volesse approfondire certi temi.
«Io credo che questo volume rappresenti un testo di servizio a beneficio della collettività che vuol essere informata su certi temi. Chi ama questo tema, non può pensare alle mafie foggiane come a un qualcosa di arcaico, alle mafie straccione così come un tempo venivano dipinte. Cosa è successo secondo la lettura di questi dati? Le faccio alcuni esempi che vengono peraltro raccontati nel libro. In provincia di Foggia sono accaduti due fatti temporalmente rilevanti: prima del 2020 c’erano persone anche di una certa cultura, persino suoi colleghi giornalisti, che negavano l’esistenza della mafia foggiana. Ne parlavano come di un fenomeno di gangsterismo urbano o di delinquenza rurale già noto. E’ a Milano che ci sono le gang, la mafia vera è altro, così dicevano. Ma questa tesi negazionista è stata smentita, sotterrata, da quintali di vicende giudiziarie che hanno smentito teorie che non avevano alcun fondamento. Sentenze, va detto, che partono dall’omicidio Panunzio, il 6 novembre 1992 in via Napoli».
Come si spiega lei il negazionismo di alcuni? Ragioni culturali, cointeressenze o che altro?
«Molti hanno avuto in mente l’esistenza della mafia come quella disegnata dai media a proposito di “Cosa nostra”. Cioè la mafia che tiene contatti ai più alti livelli con la politica romana, che si macchia di atti criminali eclatanti come nel periodo stragista dei primi anni ’90, eccetera. I presunti mafiosi foggiani “sono quattro pecorai”, si diceva, è solo gentaglia che va a chiedere il pizzo. Non c’entra nulla con la vera mafia».
Attenzione però, la pensavano così innanzitutto i suoi colleghi inquirenti. Era inevitabile che l’opinione pubblica venisse condizionata da certe valutazioni.
«Non c’è dubbio, anche a questa palese sottovalutazione si devono una serie di errori. Certo, anche miei colleghi… Prima dell’agosto 2017, prima della strage di San Marco in Lamis (quattro morti: ndr) la si pensava ancora così. E anche dopo, devo aggiungere. Il 2017 è stato un anno orribile per la provincia di Foggia: prima l’omicidio dei coniugi titolari di una profumeria a San Severo, poi la sparatoria di giugno ad Apricena in cui l’immagine del furgone che affianca l’auto e da cui partirono colpi d’arma da fuoco turbarono molto l’opinione pubblica. Poi ad agosto il quadruplice omicidio di San Marco in Lamis con due innocenti coinvolti, i fratelli Luciani che passavano di lì per caso. Episodi che non hanno riguardato direttamente Foggia, la città capoluogo, e questo ha comportato che il negazionismo di cui sopra venisse coltivato in certi ambienti e si prolungasse, nonostante tutto, almeno fino al 2020. L’aspetto che mi lascia basito è considerare come questo tipo di ragionamento sia stato portato avanti anche da soggetti culturalmente attrezzati, ovvero da persone che leggono e si documentano, che discutono e scrivono. La sentenza Panunzio della Cassazione è del 1999, abbiamo dunque almeno vent’anni di tesi negazioniste sull’argomento mafia. Per la verità abbiamo avuto tante altre persone illuminate che hanno deciso di fare subito i conti con un fenomeno mafioso tutt’altro che trascurabile. Poi allora è accaduto che sono stati considerati mafiosi anche personaggi di minor calibro, tipo quei poveracci che vanno a chiedere il pizzo all’ambulante. E anche questa tesi provo a demolirla nel mio libro. La mia opinione è basata su fatti. Così parla un noto mafioso foggiano, condannato con il 416 bis, nello stralcio di un’intercettazione: “A me se mi parlavi di fare guai in mezzo alla strada, di calarmi il cappuccio ero il numero 1. Non ce ne stavano. Mo’ questa vita non m’interessa più, ci interessano i soldi, l’hai capito bene. E l’abbiamo capito tardi: falli fare a loro, noi ci siamo cotti, ormai abbiamo pagato a spese nostre un prezzo troppo alto gli sbagli che abbiamo fatto. Però mo’ ci dobbiamo svegliare, l’intelligenza sta”.
Un epitaffio sulla vecchia e nuova mafia.
«Allora, se chi sostiene che questa sia una mafia stracciona, primordiale, come fa poi a spiegare situazioni di questo genere ricostruite nella carte processuali? Il soggetto in questione, una volta uscito dal carcere dopo aver scontato una lunga condanna, è stato in grado di portare 600mila euro in contanti per acquistare terreni in Repubblica Ceca. Se consideriamo che questa sia una mafia di pastori rischiamo di sottovalutarla com’è accaduta per la ‘Ndrangheta».
La sottovalutazione deriva anche da alcune forme per così dire di comodità: investigatori che non si sono voluti sporcare le mani perchè i riflettori erano altrove.
«Oggi, devo dire, la mentalità di investigatori e giudici è cambiata. Nel marzo 2017 sono diventato procuratore aggiunto, a ottobre di quell’anno prese servizio il procuratore Vaccaro. Siamo figli di questo territorio, ho fatto come pretore qualche anno in Calabria, dal 1996 lavoro in questa provincia e sono passato attraverso tutte le vicende criminali. Quasi 11 anni a Lucera, nel 2008 sono arrivato a Foggia. Ho veramente la conoscenza di tutto quel che è accaduto, un’aneddotica sterminata. Potrei ricostruire anche la genesi di altre grosse indagini, come la Iscaro-Saburo che portò alla scoperta della prima mafia Garganica. Un tempo la Dda di Bari non era così attenta verso questo territorio, oggi noi lavoriamo in sinergia con la Dda: i magistrati di questo ufficio hanno fatto oltre 50 applicazioni alla Dda di Bari, un metodo di lavoro che ha portato a risultati straordinari. Anche io da procuratore aggiunto mi sono applicato alla Dda nell’inchiesta Decimabis, insieme ai colleghi Gatti, Giorgio e Ferrone Capano. Quando ammazzavano Tarantino, Ciavarrella ci dicevano di occuparcene noi».
Enclavi di sopraffazione in questo territorio sono ancora tanti. Non si contano le invasioni di terreno negli allevamenti del Gargano, ad esempio, le vacche dei boss locali portate a scorrazzare nelle proprietà altrui e chi subisce questi soprusi arcaici che non protesta, non ci pensa proprio a denunciare.
«E noi su questo tasto dobbiamo agire. Dobbiamo cercare di portare dalla nostra parte queste persone che avvertono lo Stato come distante. Sussiste nella provincia foggiana una pesante criticità legata ai giovani e al ruolo che rivestono nella società. Il dato sui “Neet”, le persone che non lavorano, non studiano e non fanno formazione relativo ai giovani 15-29 anni, vede la provincia di Foggia tra le prime dieci in Italia colpite da questo fenomeno, con il 35,8% di incidenza sulla popolazione attiva a fronte del 19% nazionale. La media dell’Unione europea si attesta al 13% è chiaro che questi dati pubblici generano povertà e esclusione sociale e alimentano un sostanziale distacco della popolazione dalle istituzioni nonché sfiducia nella capacità delle istituzioni di far fronte alle istanze delle persone, creano terreno fertile e consenso sociale per i clan che attingono a piene mani da questo serbatoio. Molti giovani infatti pensano che l’ingresso nel mondo criminale possa dare loro autorevolezza, dignità, ricchezza. Noi dobbiamo lavorare su questo. Sul piano giudiziario tutto questo si traduce nella mancanza di denunce e nella ritrattazione, quando facendo le intercettazioni scopriamo dei reati casualmente».
Siete visti a volte come dei Don Chisciotte dalla popolazione, accadono storie eloquenti che testimoniano spesso l’impotenza delle istituzioni per i ritardi in cui la giustizia riesce a intervenire anche rispetto a reati riscontrabili alla luce del sole. Come la diffamazione sui social.
«Bisogna vedere se viene sporta querela in questi casi, senza della quale il pubblico ministero non può muoversi. Che il sistema giustizia in Italia sia inefficiente lo dimostrano i fatti. E allora che ciascuno faccia il proprio dovere senza pensare al sistema che non va, pensiero che rischia di demotivare l’azione. Anch’io a volte mi sento un Don Chisciotte, lo confesso, c’è tutto in reticolo normativo che impedisce in qualche caso di approfondire alcune indagini. Sono il coordinatore delle indagini, cerchiamo di trovare la strada per entrare nelle indagini. Non si molla sulle ipotesi di reato, dobbiamo fare al meglio le cose che possiamo fare. Ma mi rendo anche conto che andare a parlare di legalità a un ragazzo escluso dai gangli della società è molto difficile, ma dobbiamo farlo. Perchè questo è il nostro compito e al di fuori di questo non c’è speranza».
Sul caporalato nelle campagne ritiene che sia stato fatto finora abbastanza?
«Le aziende di lavoro che fanno intermediazione truffano l’Inps e l’Erario, l’agenzia nel canone mensile si fa pagare anche la somma che deve ai lavoratori più il suo guadagno. Quando l’impresa fallisce, si chiude e ne riaprono un’altra. Quando l’indagine arriva all’organizzazione mafiosa, il mafioso si difende sostenendo di essere un “evasore fiscale”. E’ un fenomeno che si verifica non dove nasce la mafia foggiana, siciliana, calabrese ma in luoghi distanti. Gli affari li vanno a fare altrove, nei territori ricchi. L’imprenditore agricolo che usufruisce dei servizi portati da queste organizzazioni vuole risparmiare, chiede la cocaina, il gioco d’azzardo e le prostitute. Il mafioso provvede a tutto, e dà loro anche il servizio che serve all’azienda: devi smaltire 10 tonnellate di rifiuti pericolosi? Lo faccio io, non ti preoccupare. Questo il nuovo business delle mafie, per questo non sparano più. Mica perchè stiamo vincendo: hanno deviato il percorso verso il business».
Il caporalato in questa provincia si è però strutturato, secondo lei perchè?
«Gli imprenditori agricoli sono strozzati dalla filiera della distribuzione. Se lei paga 70 centesimi una scatola da 400 grammi di pelati come può mettere in regola i lavoratori nei campi? Non ce la fa. Noi abbiamo arrestato imprenditori agricoli, ma soprattutto persone perbene, nel senso che nella loro vita mai si sarebbero sognati di entrare in carcere o andare ai domiciliari perchè non hanno mai consumato cocaina, mai fatto furti, rapine. “A noi venite a guardare”, ci dicono. Ma hanno fatto caporalato perchè quando hanno portato il prodotto da vendere il commerciante lo ha pagato quattro soldi, fino alla grande distribuzione. Fino a quando pagheremo cifre irrisorie per acquistare un prodotto agricolo, a rimetterci saranno sempre i deboli. Mutatis mutandis, alla fine saranno loro a rimetterci le penne. E’ la storia del mondo».