Assange libero, ma che c’entra la libertà di stampa?

Si fa presto a invocare la libertà di stampa nella vicenda di Julian Assange. L’hacker australiano, partito negli anni ’90 da Queensland con la missione di «fare giustizia al mondo», ha combattuto in realtà solo i crimini commessi dagli Stati Uniti tralasciando quelli dei russi, dei cinesi o del coreano Kim, giusto per fare qualche altro nome di presunti usurpatori del potere della parola. 

C’è anche chi lo accusa (chiedere a Hillay Clinton) di aver favorito l’elezione di Trump alla Casa Bianca nel 2016, facendo un gran favore a Putin e unendo le proprie forze a quelle messe in piedi dall’operazione Cambridge Analytica, ovvero la gigantesca manipolazione del voto americano messa fuorilegge dalla giustizia Usa soltanto nel 2018. 

Figura controversa, enigmatica, comunque difficile da affiancare al profilo di un giornalismo libero e democratico. Un martire, questo è sicuro. Che ha messo a dura prova la propria vita per sputtanare una grande potenza economica e militare. Rischiava 185 anni di carcere se gli americani avessero potuto arrestarlo. Ha avuto coraggio, Assange. Ma la deontologia della professione è altra cosa, semmai il suo merito è di aver portato alle estreme conseguenze il diritto del cittadino del mondo di conoscere la verità sempre e comunque sui grandi fatti di cronaca. A senso unico. 

Oggi davanti alla corte delle remote isole Marianne, nel Pacifico, il 52enne fondatore di Wikileaks ammetterà di aver cospirato contro gli Stati Uniti d’America e gli verrà inflitta una condanna di 5 anni, già scontati in un penitenziario di Londra. Al termine dell’udienza potrà tornarsene a casa, in Australia, da uomo libero e dai suoi due figli avuti dall’attivista, poi sposata, Stella Morris.

E’ stato un grande manipolatore Assange, il suo straripante entourage gli ha permesso di sostenere le ingenti spese legali, di ottenere i cablogrammi dell’amministrazione Usa e di mettere spalle al muro le malefatte del Pentagono. E’ diventato cittadino onorario di svariati comuni, anche a Foggia e Lucera: nel febbraio scorso il consigliere foggiano Antonio De Sabato propose e ottenne il voto del consiglio all’unanimità. 

Viene ricordata in questi giorni la strage dell’esercito Usa a carico di civili inermi a Bagdad nel 2007, in cui morirono anche due giornalisti della Reuters. E il martirio morale e fisico della soldatessa Chelsea Manning che trafugò i file da cui prese vita l’azione fustigatrice di Wikileaks, condannata e poi scarcerata da Obama a seguito di svariati tentativi di suicidio. 

Persino l’ambasciata dell’Ecuador difese platealmente la libertà di parola e di azioni di Julian Assange, sette anni rinchiuso in quelle quattro mura nel centro di Londra (in cui ebbe comunque il tempo di conoscere l’attuale moglie e di farci due figli). 

Oggi la ragion politica ha portato l’amministrazione Biden alla concessione di questa sorta di grazia mascherata, per non concedere a quel mattacchione di Trump anche questo vantaggio. Assange ha promesso che se ne starà d’ora in poi buono e quieto a casa. C’è da credergli? 

Foto: Julian Assange (Amnesty international) 

 

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