La «rozza» mafia foggiana, come quella di Corleone, è dedita adesso più agli affari che alle bombe. Ormai chi tiene in scacco i commercianti è un racket da cani sciolti, bassa manovalanza la definiscono gli inquirenti. La «sussunzione» sarebbe stata favorita, pure stavolta, dalla saldatura con i cosiddetti colletti bianchi, naturalmente deviati. Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe aggiungere. «Senza l’aggancio con la politica saremmo rimasti una banda di paese», disse una volta Francesco Schiavone storico boss dei casalesi al parroco anticamorra don Maurizio Patriciello.
Ci fu il tempo della trattativa Stato-mafia, prima e dopo gli attentati del 1993. Sulla stagione dei servizi segreti “deviati” (le stragi dell’Italicus, piazza Fontana, piazza della Loggia, la stazione di Bologna) si potrebbe raccogliere una sterminata narrativa. Ai giorni nostri fa un certo effetto sapere che per la morte del sindaco-pescatore, Angelo Vassallo, sono indagati tra gli altri anche due carabinieri, inquieta l’idea che dietro figure istituzionali – che sia una divisa o un doppiopetto – possa celarsi il volto dell’inganno.
E comunque è su questa stessa falsariga che stanno muovendosi (e non da oggi) anche i boss foggiani: ad esempio truffando 13 milioni di euro all’Unione europea sugli aiuti all’agricoltura (operazione “Grande carro” della Procura di Foggia). Come avrebbero potuto aggirare i ferrei riscontri telematici dei guardiani di Bruxelles se non servendosi di competenze scaltre e di funzionari e tecnici specializzati? Ce n’è anche per gli imprenditori «vessati» dalle cosche, che si servono delle stesse mafie per tombare rifiuti speciali di lavorazione nelle campagne del Foggiano, un affare (per loro) che sta inquinando uno dei territori agricoli più floridi del Mezzogiorno alla modica cifra di 50 euro a tonnellata invece dei 200 euro che dovrebbero pagare per lo smaltimento legale (operazione “Ombra”, 8 arresti).
Sono solo alcuni degli episodi raccontati nel secondo libro sulla mafia foggiana scritto dal magistrato Antonio Laronga, procuratore aggiunto a Foggia (“L’ascesa della quarta mafia – espansione e metamorfosi della criminalità organizzata foggiana” edizioni Zolfo), attraverso atti processuali e l’analisi di fatti passati in giudicato. Indizi utili per capire come si sta evolvendo il fenomeno mafioso nella provincia, ritenuta marginale sul piano criminale neanche tanto tempo fa e oggi invece assurta tra le più pericolose d’Italia. Alla prima affollata presentazione del volume, nel castello ducale di Torremaggiore, è intervenuto don Maurizio Patriciello, il parroco sotto scorta di Caivano, dibattito condotto dal volto del TG1 Giacinto Pinto, capo della cronaca dell’ammiraglia Rai, che sulla scorta di una lunga stagione da cronista locale ha fornito spunti e riflessioni sulle ragioni per cui una mafia stracciona (o almeno che si riteneva tale, al netto delle iniziali sottovalutazioni degli inquirenti) è diventata dopo la strade di San Marco in Lamis la «Quarta mafia» (9 agosto 2017, 4 morti tra cui due innocenti).
«A Praga e in alcune città della Romania, esponenti della Società foggiana puntano decine di milioni di euro. Nella capitale ceca un imprenditore foggiano – ha sottolineato Laronga – ha investito 600mila euro con i suoi sodali mirando al business del mattone. I malavitosi foggiani, scontato il carcere, sono oggi alla ricerca di facilitatori per i loro loschi affari in giro per l’Europa e spesso ne trovano anche nella Pubblica amministrazione».
Le mafie si evolvono, ma i territori da cui provengono si impoveriscono, restano privi di tutto, anche di quel sostegno dopato fornito dalle cosche alle famiglie malavitose. E’ così che don Patriciello spiega l’assurdità dei morti ammazzati tra i diciottenni a Napoli (3 in un mese: ndr): «Sul territorio resta la criminalità degli adolescenti che si sparano tra loro e stuprano le bambine nel Parco verde di Caivano. Gli stupratori avevano anche 9 e 12 anni, mi domando dove le abbiano viste fare quelle cose se non attraverso la complicità bieca e distratta degli adulti? Se vogliamo che le cose cambino – ha concluso laconico il parroco anticamorra – il palazzo deve fare pace con la piazza. Altrimenti non ne usciremo, non servirà a niente nemmeno il 110 e lode dei nostri ragazzi che sognano e si preparano a un futuro migliore».
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COPERTINA La presentazione del libro di Antonio Laronga, sullo sfondo (da sinistra) l’autore, Giacinto Pinto, Don Maurizio Patriciello